top of page

Il futuro della Sardegna nei non detti della riforma


Il 4 dicembre i cittadini saranno chiamati a votare un referendum popolare estremamente importante, che riguarda nel profondo l’architettura fondamentale dello Stato Italiano.

Per quanto sia difficile leggere oggi tutti i possibili effetti di una riforma che, modificando quarantasette articoli della Costituzione in una sola volta, rappresenta un salto nel buio sotto diversi aspetti, il punto cruciale su cui riflettere come Regione Autonoma della Sardegna, è sulla condizione della nostra sovranità.

Si parla nello specifico della modifica del Titolo V, ovvero del riordino delle competenze tra Stato e Regioni. Ebbene, su questo punto sarebbe necessaria una maggiore chiarezza e onestà d’intenti, perché il Governo, decidendo di riprendersi gran parte delle competenze fondamentali, che nel 2001 un’altra riforma riconobbe alle Regioni, distruggerebbe quel minimo impianto regionalista che esiste oggi in Italia.

Quella del 2001 è stata una riforma innovativa che, nel riconoscere la pluralità territoriale italiana, ne diede risposta attribuendo alle Regioni tutte le competenze non esplicitamente riservate allo Stato centrale. Il Governo cerca oggi di affondare quel sistema riportando a sé in via esclusiva le materie cosiddette “concorrenti”, quali il turismo, l'energia, il governo del territorio, dove Roma manteneva fino ad ora la competenza soltanto sui principi legislativi generali.

Lo fa invocando la semplificazione e la riduzione dei conflitti istituzionali, poiché negli ultimi quindici anni la Corte costituzionale è stata congestionata dai ricorsi per definire i confini di competenza tra Stato e Regioni nei settori “concorrenti”, generando un’inevitabile cortocircuito nell’azione legislativa. Questa è però una narrativa utilitaristica del Governo, che non tiene conto di un dato fondamentale: proprio lo Stato centrale ha ripetutamente invocato l’intervento della Corte per limitare i poteri delle Regioni, laddove queste tentavano di affermare le proprie prerogative. Si è dunque provveduto a restringere le competenze delle Regioni, comprese le autonomie speciali, con l’avallo della Corte costituzionale che ha fatto prevalere le esigenze centralistiche rispetto alle garanzie autonomistiche.

Questa ipocrisia di fondo, viene oggi istituzionalizzata con l’introduzione della cosiddetta "clausola di supremazia”, con la quale si stabilisce che, su proposta del governo, il Parlamento potrà esercitare la competenza legislativa su materie che la Costituzione attribuisce alla competenza regionale. Il tutto a valere su qualsiasi settore (ad es. ambiente, energia, istruzione) e senza nessun limite, poiché questa pretesa scatterebbe quando lo richieda la tutela dell'”unità giuridica o economica della Repubblica" o l’"interesse nazionale". Il governo, dunque, potrebbe decidere se intervenire e come farlo, senza possibilità per le Regioni, anche in caso di opposizione alla Corte costituzionale, di vedere riconosciute le proprie legittime prerogative.

È evidente come il non meglio precisato “interesse nazionale”, sia in sostanza la mera espressione dell’indirizzo politico del governo di turno che, a seconda della sua indole più o meno centralista, potrebbe decidere se e come vincolare il potere legislativo regionale, rendendo le Regioni un mero centro amministrativo.

Quali sarebbero le ripercussioni concrete delle nuove disposizioni per la Sardegna? Formalmente la riforma non si applica alle Regioni ad autonomia speciale e alle Province autonome di Trento e Bolzano, almeno fino alla revisione statutaria. Gli esponenti politici sardi a favore della riforma affermano che mai e poi mai si avallerebbe una legge che vada contro l’autonomia speciale, e che la revisione dello Statuto avverrà sulla base di intese con la Regione senza comprometterne i poteri attuali. Dunque abbiamo due certezze: la prima è che alle Regioni speciali non potrà essere garantita l’applicazione dell’attuale Titolo V, poiché non si potrebbe mantenerlo in vita solo per alcune regioni ed eliminarlo per le altre. La seconda certezza è che la revisione avverrà per “intesa”, uno strumento di cui oggi non si prevede nulla in Costituzione e che sarà oggetto di una legge ordinaria da approvare successivamente. Si conosce attualmente una bozza di legge detta “Bressa” dal nome del sottosegretario redigente, la quale prevede un meccanismo per cui la proposta di revisione è avanzata o dal Consiglio regionale o dal Parlamento che la deve approvare e, successivamente, viene discussa dal Consiglio regionale che può approvarla o respingerla. Qualora sia respinta, verrà instaurata una Commissione paritaria di convergenza (con rappresentanti del Parlamento e del Consiglio regionale) con l’obiettivo di raggiungere l’intesa all’unanimità; se questo non avviene, l’approvazione della modifica statutaria potrà essere comunque approvata dal Parlamento con la maggioranza dei due terzi di ciascuna Camera.

Senza necessariamente essere esperti di diritto costituzionale, appare evidente come, il meccanismo così previsto individua un superamento di qualsiasi blocco decisionale con la scelta ultima delegata al Parlamento che quindi ha la possibilità di aggirare un’eventuale contrapposizione della Regione. Eventuale però, perché appare inverosimile che un Consiglio regionale supino come quello attuale, sarà in grado (o vorrà) opporsi alle nuove previsioni statutarie proposte dal Governo. Inoltre è indubbio che il procedimento come quello descritto, subisce il peso della maggioranza in gioco e dell’indirizzo politico che questa intende perseguire, rappresentando un gioco di forza in cui la Regione è la parte debole, schiacciata dalla spinta centralista del governo di Roma. Infine, si potrebbe aggiungere che l’intesa sarebbe regolata da una legge ordinaria, che andrebbe a incidere sul procedimento costituzionale di revisione dello Statuto previsto dall’art. 138 della Costituzione, non rappresentando dunque una garanzia ma anzi indebolendo il secondo strumento di rango superiore.

Appare dunque chiaro come il potere per il Governo di Roma che deriverebbe da questa riforma sia immenso e in grado di distruggere il sistema regionalista in favore di un centralismo spregiudicato e anti-storico (come il funzionale sistema autonomista spagnolo dimostra), creando i presupposti per eliminare definitivamente le Regioni autonome: cosa potrebbe fermare il governo una volta che la Costituzione permette di svuotare il potere regionale? E chi si solleverà ad argine e difesa della specialità territoriale sarda? Forse lo faranno i nostri rappresentanti in Parlamento o del Governo regionale? Ebbene, crea più di qualche pensiero la grave e imperdonabile complicità nella difesa di questa riforma, che nega qualsiasi ripercussione per la Sardegna. Una difesa d’ordinanza, senza che vi sia stata una discussione partecipata per capire cosa comporti questo cambiamento per noi sardi: siamo giunti alle prese di posizione per atto dovuto, per appartenenza politica e, in qualche caso, per convenienza personale.

Nemmeno il Presidente della Giunta regionale Francesco Pigliaru, che rappresenta tutti i sardi, contrari e favorevoli alla riforma, si è fatto carico dei tanti dubbi che molti cittadini e soggetti politici (anche della sua maggioranza), stanno sollevando, ma anzi approva incondizionatamente la riforma. Sembra quasi una difesa d’ufficio la posizione del Presidente, che evita il confronto con la controparte nella convinzione della forza negoziale della Sardegna, che fino ad ora però è stata oggettivamente al ribasso rispetto alle pretese di Roma.

Le parole contano meno dei fatti, e questi ci dicono che in quasi settant’anni il nostro divario geografico ed economico con la penisola non è stato colmato, proprio perché spesso l’interesse nazionale italiano ha prevalso sull’interesse nazionale sardo. I fatti dimostrano anche che le nostre classi dirigenti sono corresponsabili del cattivo governo, poiché una volta salite al potere “si dimenticano” di rappresentare l’interesse della Sardegna, schiacciandosi su istanze romane per esigenze individuali o di partito.

Il 4 dicembre possiamo iniziare a porre un argine a questa deriva pluridecennale e far sentire una voce forte e chiara: la Sardegna deve dire NO a una riforma che non ne garantisce l’autonomia, mettendo inoltre la parola fine al regionalismo. Dire NO alla riforma, per iniziare subito dopo una nuova fase di rielaborazione profonda della nostra ragion d’essere: dobbiamo guardare al futuro e non possiamo più farlo con un approccio vecchio e fallimentare, né possiamo più accettare rappresentanze legate a doppio filo a interessi distanti da quelli sardi.

La rappresentanza dei nostri diritti avrà un orizzonte solo se saremo in grado di contrapporre un autentico interesse nazionale sardo all’interesse “nazionale” di Roma. In caso contrario saremo destinati al fallimento. È un’eventualità ormai prossima: l’importante è non meravigliarsi se, quando lo Stato italiano verrà a staccarci la spina, qualcuno tra i nostri rappresentanti gli aprirà la porta e gli indicherà l’interruttore.

Il 4 dicembre votiamo NO, per noi stessi e per il futuro della nostra terra.


Carlo Serra

Coordinatore cittadino RossoMori Cagliari

Comitato “Sardegna per il NO”

Segui i Rossomori
  • Facebook Basic Black
  • Twitter Basic Black
  • Google+ Basic Black
bottom of page